Appennino 2020, c’è un futuro per gli sport invernali?
APPENNINO 2020, C’È UN FUTURO PER GLI SPORT INVERNALI?
Critica alle teorie disfattiste, riflessioni sui punti di forza e debolezza dell’Appennino, considerazioni sull’innevamento programmato.
Di Filippo Campanile, marzo 2017
L’accusa. Fin dai lontani anni 80, e oggi in misura crescente sull’onda del cambio climatico, risuonano a livello mediatico gli attacchi di coloro che urlano al fallimento del modello di sviluppo delle stazioni sciistiche appenniniche, auspicando la loro dismissione. Il leitmotiv sul quale i diversi opinionisti costruiscono le loro teorie è sempre lo stesso: l’Appennino
troppo mite, gli investimenti in impianti a fune
non è adatto agli sport invernali a causa di un clima vengono fatti in assenza programmazione, senza valutarne la futura sostenibilità ed esclusivamente al fine di accaparrare fondi pubblici, che vengono inutilmente sperperati, o peggio finiscono nelle tasche di pochi furbi. Condivisibile o meno, tale teoria sconta un peccato originale, quello di condannare acerrimamente un
sistema senza mai proporne uno alternativo
adeguato per arginare lo spopolamento definitivo delle aree montane dell’Appennino. Questo mio scritto non ha pretesa di proporre il nuovo modello vincente, ma di smentire in gran parte le teorie sopra citate ed offrire spunti di riflessione per poter far funzionare meglio le stazioni esistenti, al fine di favorirne la loro conservazione.
L’ Appennino e la crisi sistemica che lo attraversa. Non è vero che in Appennino nevica meno che sulle Alpi, dipende dagli anni, è vero invece che la dorsale è meno protetta dall’entrata delle perturbazioni caldo-umide che possono causare repentini scioglimenti. Questo vale oggi in pieno cambio climatico, come valeva 50 anni fa.
La differenza tra presente e passato non è prettamente climatica, ma anche di natura economica: oggi si cerca l’efficienza assoluta di ogni singola impresa come unità a sé stante, basata sul suo funzionamento a regime e sui grandi numeri, una volta ci si accontentava di situazioni diverse, con un occhio anche all’indotto e al beneficio sistemico. Posso concordare sulla necessità di funzionamento a regime, dove rientrano a pieno titolo gli investimenti in innevamento programmato, ma non sono affatto d’accordo sulla ricerca dei grandi numeri a tutti i costi. Chi crede alla favola che un giorno torneranno gli anni d’oro dello sci alpino si sbaglia, perciò l’abuso generalizzato del termine “rilancio” mi fa spesso sorridere. Molte piccole resort sono in crisi, non solo sugli Appennini, si parla ovunque di “rilancio”, ma spesso si parla a vanvera, a vuoto. Se proprio vogliamo usare termini così scontati, allora scegliamone uno ancor più inflazionato, ma per lo meno attinente, “ripartenza sostenibile”, sostenibile prima di tutto a livello economico-sistemico, oltre che chiaramente dal punto di vista ambientale. L’impresa di successo non è quella che cavalca l’onda del mass market con una strategia collaudata in passato o vincente per altri, ma non più valida oggi o non applicabile alla propria realtà; il successo appartiene a chi è capace di reinventarsi per adattarsi a situazioni mutevoli, ponendo le basi per buoni risultati futuri. Non esiste in realtà un dualismo Alpi o Appennino, il fulcro sta nella differenza tra piccola stazione e grande carosello, due realtà che andrebbero gestite in maniera differente.
Idee per una graduale ripartenza. Le piccole stazioni sciistiche dovrebbero prima di tutto guardarsi alle spalle per sanare gli errori del passato e, solo successivamente, ipotizzare l’occupazione di nuovo territorio. Gli errori sono consistiti in gran parte nell’aver fatto passi più lunghi della gamba sull’onda frenetica della finanza facile, con conseguente pianificazione un po’ approssimativa. Molte piccole resort sorgono in aree di grande pregio naturalistico con potenzialità turistiche notevoli, mantenere in funzione le risalite meccanizzate è condizione indispensabile per far emergere tali potenzialità ed ottenere risultati, poiché senza impianti non si può superare una soglia minima di frequentazione in grado di giustificare la nascita di ricettività e servizi. Questi luoghi hanno comunque le carte in regola per poter offrire anche altre attrazioni, strettamente collegate alla pratica dello sci alpino o indipendenti da esso, per cui gli impianti a fune andrebbero concepiti sì come principale polo di richiamo, ma non come unica ragione di esistenza. Un modello di gestione del turismo di queste località dovrebbe partire dall’analisi dei punti di forza, rappresentati dall’esistenza e vicinanza di bacini d’utenza significativi, dalla bellezza della natura, da storia e tradizioni, ma lo stesso modello dovrebbe tenere in considerazione anche gli elementi di vulnerabilità del territorio, legati alla sua circoscritta estensione e conseguente fragilità dell’ecosistema. Non è quindi detto che ogni resort debba sviluppare a dismisura le proprie risalite meccanizzate in termini d’estensione, e non è nemmeno vero che il mantenimento in funzione di una stazione sciistica esistente sia giustificato solo se in grado di offrire un’operatività totale e continuativa su tutto il periodo programmato. Gli impianti a fune portano beneficio e sviluppo anche se in alcuni periodi sono costretti a rimanere chiusi a causa di condizioni meteorologiche avverse, o meglio se capaci di superare questi periodi garantendo un’operatività ridotta al minimo ma comunque tale da fungere da volano per le attività collaterali.
Le piccole stazioni sciistiche in crisi dovrebbero pianificare i nuovi investimenti ponendosi come priorità assoluta la conservazione, la manutenzione e l’ottimizzazione dell’esistente, senza nemmeno escludere ipotesi di “riduzione”. Per riduzione non intendo assolutamente dismissione di settori attivi, ma razionalizzazione per il perseguimento di un duplice obiettivo: offrire lo stesso numero di piste, o ancora meglio più piste, più servizi, e più possibilità (freeride compreso), senza sconfinare necessariamente con nuove linee di risalita oltre l’area di attuale occupazione.
Chiaramente questo discorso vale nei casi (e non sono pochi) d’installazioni già articolate che occupano un’area significativa, e non vuole escludere la possibilità di collegamento tra stazioni adiacenti, ove possibile con interventi di modesta entità.
Gli attuali schemi impianti-piste di numerose piccole resort non sono ottimizzati e c’è molto spazio per azioni che, seppur non radicali, sarebbero sufficienti per cambiarne l’attrattività dal giorno alla notte. Si potrebbero ad esempio rimpiazzare due vecchi impianti con uno solo più efficiente, creando così più spazio sciabile, eliminare ingombranti cubature in disuso con ricettività oramai esuberante, ridisegnare in maniera più logica i layout delle piste, il tutto inserito in un piano di riqualificazione estetica e funzionale del patrimonio edilizio, ripristino del verde, cura del territorio. Gli interventi descritti possono trasformare i limiti delle piccole stazioni in punti di forza: se la località si presenta ben curata la comunicazione può imperniarsi sul concetto di “piccolo è bello”, ispirandosi al fascino della natura, al valore della tranquillità, alla riscoperta di ritmi a misura d’uomo, costruendo così una splendida cornice intorno alla pratica della attività prevalenti, rappresentate dallo sci alpino, dal freeride, dallo sci alpinismo e dall’escursionismo.
Accettare la sfida? Quale migliore occasione di rinnovarsi per il Centro Appennino, se non quella offerta dal sisma del 2016? Pur nella tremenda disgrazia questo evento ha offerto un grande invito a rimboccarsi le maniche guardando al futuro, si tratta forse dell’ultimo treno sul quale salire per tentare di porre definitivamente rimedio ai troppi errori del passato. Il sogno è quello di trasformare ciò che rischia di diventare un ammasso ferri vecchi disposti in ordine sparso, operativi a singhiozzo, in un piccolo gioiello la cui estetica e funzionalità possa render giustizia all’ambiente superbo che lo accoglie, un piccolo orologio svizzero nel cuore del caos Italiano. Chi accetterà questa sfida sarà senz’altro vincente e, solo dopo essere riuscito a far ripartire il delicato meccanismo, sarà legittimato a progettare eventuali nuove espansioni.
La funzione delle piccole resort e i loro bacini d’utenza. C’è enorme domanda di montagna, molta più di quanto si possa pensare. Il gioiello sopra citato, se gestito in maniera flessibile e dinamica, potrebbe avere le carte in regola per lavorare a regime, in quasi tutte le stagioni, con numeri consoni alle proprie potenzialità, senza eccessi, ma ben al riparo da crolli d’affluenza. Con il termine “pieno regime” non intendo chiaramente una frequentazione costante, feriale, festiva, in alta e bassa stagione. Le piccole località dovranno sempre fare i conti con l’utenza irregolare, che si assomma al problema della stagionalità, tipico del settore turistico. La grande sfida della piccola resort è quella della flessibilità: saper gestire attivamente i periodi di scarsa affluenza, ma non trovarsi impreparati di fronte ai picchi. La clientela delle piccole resort è in gran parte differente da quella dei grandi comprensori e, anche nei casi in cui si trattasse degli stessi utenti, questi ultimi arrivano con altri obiettivi e diverse aspettative. I grandi caroselli non sono in concorrenza con le piccole resort, ma assolutamente complementari, e ciò è abbastanza scontato: la settimana bianca in un grande resort alpino alimenta la voglia di sciare, e quindi di passare poi tanti weekend nelle località vicine a casa; per converso, mantenere viva l’abitudine di sciare nel weekend, accresce il desiderio di ripetere la settimana bianca a fine stagione, oppure l’anno successivo. E’ meno scontato, ma altrettanto vero, che nemmeno le piccole resort di una stessa area sono in concorrenza tra loro, al contrario, sono sinergiche: se una piccola stazione muore le altre vicine hanno moltissimo da perdere e poco da guadagnare, poiché si tratta di un ulteriore passo verso l’estinzione dello sci alpino in quella zona che diventa meno attrattiva per il turismo. Esiste intatti una domanda, di nicchia ma crescente e perciò non trascurabile, che porta alcune categorie di persone ad optare per le piccole resort, alla ricerca di un ambiente più naturale, dove praticare anche attività alternative, come scialpinismo, fondo escursionismo, o semplici ciaspolate. La località che vuole attrarre questo turismo deve garantire un buon servizio, che parte dal poter assicurare l’operatività di alcune piste innevate artificialmente anche nei momenti sfavorevoli, e si sviluppa poi offrendo delle attrazioni collaterali, come ad esempio una buona scuola di sci, una pista illuminata, uno snow park, un anello da fondo escursionismo, etc. Necessaria inoltre un’organizzazione che miri ad una ricettività con standard dignitosi, che promuova l’accoglienza cortese ed il buon mangiare basato su prodotti tipici, che garantisca un’agevole viabilità. Al di là della clientela particolare sopra descritta, è certo che il “core-business” delle località appenniniche sia quello della fre-quentazione giornaliera e dei weekend. E’ soprattutto su questa tipologia di clientela che la gestione dovrebbe concentrare gran parte delle proprie forze, per poter offrire il massimo ed alimentare il ritorno, fino a creare l’abitudine. La frequentazione continuativa è più difficile da attrarre, al di là dai proprietari di seconde case, che dovrebbero comunque essere fidelizzati mirando alla creazione della comunità, fornendo tutto l’appoggio possibile a coloro che si propongono come organizzatori di eventi e manifestazioni. Altre fonti di frequentazione continuativa potrebbero essere ricercate attraendo utenze particolari, quali stage di allenamento, corsi aggiornamento maestri, scialpinismo e, non ultimo il freeride, che dopo la grande attenzione che ricevuta all’estero, di recente viene visto con interesse anche dai gestori nostrani. Ritengo invece inopportuno puntare sulle classiche settimane bianche programmate, a meno di avere un impianto di innevamento artificiale altamente efficiente. In ogni caso, le settimane bianche programmate non diventeranno mai il business tipico dell’Appennino, vittima in inverno di una meteo più ostile rispetto a quella Alpina.
Strategie di gestione e comunicazione. La comunicazione delle piccole resort dovrebbe essere focalizzata sulla propria clientela target, una clientela mutevole, dinamica e poco fedele, non sarebbe corretto ispirarsi al modello di marketing classico tipico delle grandi località. Ad esempio l’Appennino soffre storicamente della carenza di neve in dicembre e gen-naio, ciò non deriva solo dal cambio climatico, è una caratteristica normale del clima mediterraneo, la “meridianizzazione” tardiva, sulla quale non mi dilungo. Il modello classico vorrebbe che a Natale si facesse il tutto esaurito per poter far fronte alle perdite della bassa stagione, rilanciando a febbraio con le settimane bianche. Sull’Appennino ciò non quasi mai è possibile. Le resort appenniniche dovrebbero dotarsi di un impianto d’innevamento programmato per tentare di garantire un minimo di operatività durante le festività natalizie, al fine di parare il duro colpo che di anno in anno diventa sempre più probabile, ma poi dovrebbero puntare il tutto per tutto sui weekend della seconda metà invernale. E’ su questo periodo che andrebbero sparate le più efficaci cartucce della comunicazione, ed è un grave errore pensare che in questi mesi sulle montagne di prossimità non ci sia domanda di neve, weekend all’aria aperta, o addirittura settimane bianche last minute. Negli ultimi anni i processi decisionali e le abitudini dei turisti domenicali sono profondamente mutati, per motivi economici in primis, ma anche per una maniacale attenzione alle previsioni meteo, che di anno in anno diventano più affidabili. Solo strategie di comunicazione attente e dinamiche, unite a gestioni reattive e flessibili, possono attrarre flussi estemporanei di frequentatori non ancora fidelizzati e, giustamente, meteo-dipendenti. Esistono casi di successo, sia all’estero che in Italia, di piccole località che funzionano molto bene, anche con bacini d’utenza molto più piccoli di quelli dei nostri Appennini. Questi gestori hanno successo poiché curano il proprio “orticello” con grande attenzione e massima cura. E’ chiaramente difficile concepire imprese autonome in attivo senza alcun intervento pubblico, ma il sistema va visto nel suo complesso in termini d’indotto sull’intera area, che crea un bilancio globale positivo. Un ultimo aspetto da non trascurare è quello della recente tendenza all’utilizzo degli impianti a fune nel periodo estivo, derivante da una crescente domanda di montagna in tutte le stagioni. In questo caso i piccoli impianti appenninici sono addirittura avvantaggiati rispetto a quelli alpini, poiché snelli e quindi più rapidi nel convertirsi in modalità on o off secondo esigenza. Gioca a favore anche e una meteo estiva più secca di quella alpina, che può garantire più giorni di operatività.
Appennino e Innevamento programmato. Anche in questo caso vorrei affrontare il tema sfatando un classico cavallo di battaglia dei disfattisti: “l’Appennino non ha le temperature che consentono di innevare artificialmente”. L’affermazione potrebbe essere anche condivisibile a livello pratico, visto che molti impianti sono inefficienti poiché mal progettati, ma è profondamente sbagliata dal punto di vista concettuale. Infatti, il più grande nemico del “cannone” non è rappresentato dall’innalzamento delle temperature medie, ma piuttosto dagli elevati tassi d’umidità. Prima di parlare di innevamento programmato, occorre fare chiarezza su un concetto fondamentale, quello dell’innevamento di fondo. Si tratta infatti dell’elemento essenziale, cruciale, decisivo, intorno al quale ruota e fonda le sue radici l’esistenza dello sci alpino. Escludendo le micro stazioni di bassa quota concepite per operare “spot”, le realtà più organizzate possono avviare a regime la loro stagione sciistica esclusivamente quando si è creato il cosiddetto “fondo”, in assenza di esso sono possibili solo aperture di durata effimera, con successivo rapido ritorno in stand-by. Sull’Appennino il fondo può esser creato esclusivamente da una nevicata molto consistente, seguita da un periodo significativamente lungo nel quale non intervengano elementi di disturbo, quali pioggia diffusa o bufere con scaccianeve.
In realtà l’optimum si otterrebbe se intervenisse un brevissima scaldata successiva alla grande nevicata, che favorirebbe la trasformazione del manto, seguita poi da un lungo periodo gelido. Si capisce che stiamo parlando di combinazioni quasi “lottomatiche”, concordo che bisogna riporre molta fiducia nella provvidenza, ma dubito che solo su di essa si possa fondare il piano industriale di un’impresa. È abbastanza probabile che gli Appennini vengano investiti da almeno una nevicata furibonda nel corso della stagione ma, sempre ammesso che ciò accada, tale evento può verificarsi a fine novembre, come a fine marzo, c’è una certa differenza! Mentre sulle Alpi e in alta quota il fondo può crearsi anche gradualmente come somma di piccole nevicate, per il manto nevoso appenninico la matematica diventa purtroppo opinione. Sull’Appennino 60+20+10 fa sì 80 ma, in alternativa, 10+10+10+10+10+10+10+10 fa ZERO! I rilievi appenninici sono troppo soggetti a repentine impennate di umidità e temperatura, la neve può conservarsi a lungo solamente se si deposita su altra neve.
Un innevamento di fondo ben consolidato è quello che, oltre ad avere un significativo spessore, ha subito l’opportuna trasformazione che gli consente di resistere non solo alle bufere più impetuose, ma anche alle scaldate più selvagge, o addirittura a periodi prolungati di pioggia.
L’innevamento artificiale nasce come strumento per la creazione del fondo sulle piste principali di un comprensorio, ma oggi l’accelerazione del cambio climatico ha costretto a farne un ricorso sempre più smodato, fino agli sfruttamenti selvaggi che stiamo osservando negli ultimi anni sulle Alpi Orientali, mediante i quali si riescono a mettere in operatività interi comprensori in totale assenza di precipitazioni naturali. Questi esperimenti estremi dimostrano che, nonostante le temperature medie siano ultimamente molto elevate, il clima secco permette comunque agli impianti di raggiungere produttività significative. Ma sugli Appennini è possibile innevare artificialmente? Nel bacino del Mediterraneo i due effetti più visibili del cambio climatico sono rappresentati dalla persistenza di alte pressioni o, in alternativa, da lunghi periodi dominati dalle circolazioni oceaniche piovose. Le alte pressioni giocano a favore della produttività dei cannoni, l’Atlantico è invece nefasto poiché intrappola tenacemente al suolo le masse d’aria caldo umida. C’è tuttavia da osservare che le alte pressioni persistenti siccitose sono molto più frequenti delle perturbazioni atlantiche, e spesso coincidono con l’inizio dell’inverno, periodo nel quale le ore di luce sono poche e di conseguenza le minime della notte possono scendere al di sotto dello zero per parecchie ore. Per rispondere alla domanda potremmo quindi dire che, negli anni in cui la neve naturale non cade per latitanza d’irruzioni artiche, l’Appennino si può innevare artificialmente, ma non in inverni dominati da una circolazione di stampo oceanico, eventualità quest’ultima abbastanza rara. Se al giorno d’oggi in assenza d’impianto potrebbero andar male, ad esempio, due stagioni su tre, in presenza di esso si potrebbe magari sperare di salvare quattro stagioni su cinque, c’è una bella differenza! Le stazioni appenniniche per sopravvivere si dovrebbero dotare di un impianto d’innevamento, senza investimenti faraonici, ma con in testa l’obiettivo dell’efficienza in fase di studio e progettazione, soprattutto in termini di proporzionamento dell’invaso in rapporto alla superficie che si intende servire. Anche una sola pista innevata, in attesa delle precipitazioni naturali che solitamente in febbraio giungono puntuali, potrebbe fungere da volano per mantenere attiva la località. Una piccola parte del comprensorio in funzione consentirebbe alle scuole di sci di operare, stimolerebbe i proprietari di seconde case a salire comunque, frenerebbe l’emorragia di disdette nella vacanze natalizie, manterrebbe vivo un piccolo indotto per la comunità locale.
Conclusioni. Secondo la mia opinione, in totale assenza d’impianti a fune non esistono formule valide per arrestare lo spopolamento e la desertificazione delle aree montane. A supporto delle risalite meccanizzate, l’implementazione di un sistema d’innevamento programmato correttamente dimensionato, può essere di enorme aiuto. Mi auguro pertanto la cessazione della reazione a catena delle dismissioni degli impianti appenninici, e spero che si comincino ad intravedere prima possibile segnali d’inversione di questa tendenza. Solo la sopravvivenza delle piccole stazioni sciistiche, in sinergia con le attività turistiche collaterali, potrà creare l’indotto capace di scongiurare un futuro caratterizzato da un’antropizzazione mal distribuita, concentrata solo nelle aree urbane e nei grandi poli di villeggiatura, a discapito di altre zone montane che vedrebbero le loro splendide vallate lasciate al più completo e squallido abbandono.